works
Dal Sudario dei Vinti rappresenta un filone di ricerca artistica che ha coinvolto, insieme al fotografo, il pittore Gioni David Parra e il filosofo, nonché critico d'arte, Valerio Meattini. E' quest'ultimo a scrivere che i due artisti "hanno prodotto l'epopea dell'assenza possibile, dove rivoli e segni di speranza germinano ancora in scenografie di abbacinante asprezza. Da fotografie di Sbrana, riportate su tela, e su cui Parra è intervenuto con sovrapposizioni di carta, carbone, cenere o con olii, pastelli, china e acrilici, il sudario dei vinti sbalza davanti ai nostri occhi, costringendoci o ad un'indifferenza folle, più che vile, o a un pensiero che sappia sostare di fronte al fondo cui apparteniamo e abbia capacità sufficienti d'immaginazione per rinnovarsi".
Presentazione a cura del Professor Valerio Meattini
(filosofo e critico d'arte)
Quel che non c'è si vede e si sente dappertutto.
La continua presenza riempie, satura; l'avvolge infine e la corrode l'indifferenza. Quel che manca, l'assente, il non riempito s'impone, assilla, ossessiona. L'arco, in cui tensione desiderante e appagamento che scema fino al monotono, e senza più palpito alcuno, aver a che fare con persone e cose, è caratteristico delle nostre vite individuali, delle nostre giornate, degli accadimenti che provochiamo e subiamo non più redenti, in tal caso, dalla gemmazione immaginante. Diciamo pure che gli estremi dell'arco nella loro compresenza, e in una immaginazione capace comunque di avvistare la novità, hanno una funzione equilibratrice nella vita umana e la caratterizzano come una vicenda che passa da una stazione all'altra, in quel fluire del tempo nostro e delle cose che, appunto, chiamiamo vita. Se prevalesse insistentemente la sazietà avremmo, infatti, l'apatia, e se, invece, il desiderio vibrasse continuamente di se stesso, senza sbocco, senza speranza, l'umano si spezzerebbe e si sbriciolerebbe in una polvere di spasimi. A queste modalità delle esistenze individuali siamo abituati; li attribuiamo all'imperscrutabile o al destino o alla dissennatezza, quegli esiti.
Ma, che cosa accadde quando i segni della penuria e dell'esaurimento si producono insistenti in ciò che presupponevamo inesauribile? quando il fondo da cui le vite animali e vegetali provengono stenta a rimarginarsi e la terra che ci sostiene cretta e, non più bacino di vitalità potenziale, s'inaridisce e si spegne in spettrale, lunare, assenza? L'usuale pensiero dell'avvicendamento s'incrina; al naturale tramontare e sopraggiungere delle generazioni si sostituisce l'inquietudine che le cose, tutte le cose, possano finire. "Le cose", che c'è di più generico di questa espressione che poco determina e perciò poco dice? Eppure, quando quella possibilità si profila, essa si carica di un'inquietudine e di una precisione che stordisce. "Le cose", cui siamo avvezzi, possono venir meno e non aver ricambio, l'assenza permanente può sostituirsi ad una presenza data per scontata nella memoria dei tempi (umani).
L'arte può sentire questo contraccolpo, l'occhio, la mente e la mano d'uomini possono, fissando l'assenza, aprirci ambiti di riflessione e di lavoro, ove l'assenza fosse il risultato di un dissesto che altri occhi senza vista, menti dementi e mani irresponsabili possono aver provocato. Se, come nelle vite individuali, anche nella comunità degli uomini tutti, la redenzione dall'assuefazione sta nella gemmazione immaginante, allora l'arte - nella sua piena autonomia d'intenti - può contribuire, potenziando l'immaginazione, a quell'etica della lontananza che è ora la più essenziale. L'antica etica delle relazioni umane non può ormai che esser parte di un più ampio orizzonte in cui ogni azione dei viventi umani s'iscrive in una proiezione di conseguenze nello spazio e nel tempo. 'Lontananza', ma potrebbe anche dirsi 'prossimità', perché la potenza dei mezzi con cui agiamo sul fondo, da cui tutte le cose vengono, e sulla terra, che tutte le sostiene, divora ogni spazio e ipoteca il futuro come mai prima di ora è stato possibile. Se usiamo l'espressione etica della lontananza è perché dal vecchio punto di vista essa così appare e meglio c'intendiamo. Ma, e ovviamente, mai come in questo caso è fuori luogo ogni disputa su parole.
Congiungendo le forze, Fabrizio Sbrana, fotografo, e Gioni David Parra, pittore, hanno prodotto questa epopea dell'assenza possibile, dove rivoli e segni di speranza germinano ancora in scenografie di abbacinante asprezza. Da fotografie di Sbrana, riportate su tela, e su cui Parra è intervenuto con sovrapposizioni di carta, carbone, cenere o con olii, pastelli, china e acrilici, il sudario dei vinti sbalza davanti ai nostri occhi, costringendoci o ad un'indifferenza folle, più che vile, o ad un pensiero che sappia sostare di fronte al fondo cui apparteniamo e abbia capacità sufficienti d'immaginazione per rinnovarsi.