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Ethiopia: c'è altro da dire

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Etiopia: c'è altro da dire
"esploratori", antichi e moderni, alla scoperta dello straordinario sud

Testo di Nella De Angeli

Terra d'Etiopia. Certo che c'è dell'altro, molto altro da dire.
Sinonimo di storia millenaria, di antichi sovrani divini, di popoli straordinari e magnifiche civiltà, di profonda spiritualità e eremitaggi rigorosi, l'Etiopia ha la chiave per aprire la porta della complessa origine dell'uomo e per chiudere quella dell'orrenda ferocia dell'uomo contemporaneo.
Dell'Etiopia i più hanno un'idea vaga legata soprattutto a ciò che interessa il mondo dei mass media: la grande siccità, la fame, i conflitti che a fasi alterne riprendono ora qui ora là. A rendere questa idea ancor più approssimativa contribuisce e il fatto che questo paese del Corno d'Africa non è una meta turistica "per tutti", e lo scarso interesse di noi italiani a sfogliare le pagine della nostra storia più recente: quella di un'Italia che veste i panni del colonialista e muove alla conquista dell'Etiopia.
"Terra che si interpone tra le colonie italiane destinate a congiungersi, terra di popoli primitivi privi di ogni iniziativa mentale o intellettuale, ignari di ogni barlume di civiltà, coraggiosi e codardi allo stesso tempo" (da Manuale linguistico per l'Africa Orientale, ad uso dei militari, funzionari, uomini d'affari ecc.., Torino, 1935).
Sono pagine che stimolano una certa curiosità, che muovono un qualche interesse alla conoscenza di questo popolo che abita gli estesi altopiani verdeggianti della Rift Valley e si è adattato alla vita nel deserto infuocato della Dancalia. Forse popoli non così privi di civiltà.
Chi viaggia attraverso l'Etiopia oggi non tarda a sentirsi amato e rispettato dal popolo etiopico. Questa, che è una sensazione del tutto personale, dà adito a svariate domande, anch'esse personali, e sta all'origine di una grande contraddizione. Mezzo secolo trascorso dall'invasione italiana è riuscito a cancellare negli etiopici il ricordo della guerra, oppure sul terreno, oltre alle migliaia di civili morti -gassati-, gli italiani hanno lasciato dell'altro? Qualcosa di non materiale come può essere un rapporto umano paritario che difficilmente si può registrare tra colonizzato e colonizzatore? Non è tempo di riflessioni storiografiche, ma vale la pena fermarsi a pensare e magari partire da qui per analizzare questa strana relazione tra etiopici e italiani. Torniamo ora alla nostra primitiva curiosità.
Nel primo numero di Afro abbiamo iniziato un viaggio che ci dovrebbe portare alla conoscenza, seppure sommaria, dell'Etiopia. Là abbiamo rivolto la nostra attenzione alla storia della terra di Punt, ai suoi contatti con l'Egitto, alla diffusione del cristianesimo e alla grandiosità delle chiese rupestri, ora vorremmo addentrarci in quelle regioni meridionali che, pur non annoverando Axum, Gondar o Lalibele presentano un così folto numero di popoli e civiltà che nulla hanno da invidiare ai castelli o ai monumenti funerari presenti in gran numero nel nord dell'Etiopia.
Per gli esploratori ottocenteschi il sud dell'Etiopia era un mistero. Per i rastafariani il sud è la terra ricevuta dal Re dei Re, dal messia nero Ras Tafari - imperatore col nome di Hailé Selassie I (dal 1930 al 1974)- colui che avrebbe dovuto richiamare in Africa da ogni parte del mondo il popolo nero tenuto in schiavitù. Per i paleontologi, gli archeologi e gli etnologi il sud è una miniera inesauribile di informazioni. Per noi un soddisfare taluni interessi e comporre un nuovo pezzo del complesso mosaico etiopico..
E' per questo che seguiremo un doppio percorso: l'Etiopia degli esploratori e quella degli etnologi con qualche sosta nelle pagine della Storia.
Quando si parla delle esplorazioni geografiche ma soprattutto degli esploratori, sette/ottocenteschi non è difficile immaginare uomini coraggiosi, audaci con grande spirito di avventura che molto spesso, con miseri mezzi, partivano dai loro paesi per addentrarsi in luoghi sconosciuti e descriverne il territorio, la natura, le risorse, i popoli con le loro usanze e ritualità e tutto ciò che ritenevano interessante. Non viene spontaneo immaginare, al contrario, avventurieri al soldo di grandi compagnie o di governi europei tenuti sotto pressione dall'industria armatoriale, la cui missione, più che scientifica, era commerciale e apriva la strada alla conquista.
La storia dell'intera Africa nei due secoli scorsi è una storia che parte dalle esplorazioni e approda al colonialismo. Al desiderio di conoscenza si è sostituito, a un ritmo serrato, quello di sfruttamento delle risorse.
Non è un caso che, ancora oggi, l'Africa sia un territorio divorato.
E' molto breve la distanza, un secolo o poco più, che intercorre tra le più importanti esplorazioni geografiche dell'Africa e la spartizione dell'intero continente a Berlino, nel 1885, tra le potenze europee.
A parte il territorio etiopico e quello liberico, prima della fine dell'Ottocento, tutta l'Africa è sotto il dominio coloniale. Di lì a poco anche l'Etiopia subirà la stessa sorte. Sarà l'Italia a coltivare e far fiorire la nuova sete di conquista di questa parte del corno d'Africa, a cinquant'anni dalla conferenza di Berlino.
Tra gli scritti che riguardano le esplorazioni geografiche dell'Africa, ce n'è uno minuzioso, ma non recente, che abbiamo consultato con un certo interessamento. Si tratta della relazione di Mons. Daniele Comboni al rettore degli Istituti Africani in Verona, datata 1880.
Fermo restando il nostro rispetto per le sottolineate "fatiche apostoliche e le difficoltà incontrate dalle sante Missioni" ci soffermiamo su quei passaggi che forniscono descrizioni del territorio oppure danno l'idea di come doveva apparire l'Africa agli occhi di chi si avventurava alla scoperta di questo continente.
La terra d'Africa, scrive il Comboni, "non ricca di isole e di seni, e vasta più che tre volte l'Europa(*), non offre al navigante né opportune stazioni, né abbastanza sicuri porti. A chi ardisce penetrare nel suo interno uniforme come lo sviluppo delle sue coste, si attraversano difficoltà e pericoli, quali non oppongono né l'immenso Oceano od i suoi scogli, né le savane e le foreste del Nuovo Mondo, né i ghiacci dei mari polari, né le eccelse cime delle Ande e dell'Himalaya, né i deserti dell'Asia centrale e le loro tribù1".
L'enfasi con cui parla delle esplorazioni geografiche in Africa è tale che il religioso arriva a definirle "uno degli spettacoli più degni di ammirazione e d'interesse del secolo XIX" , lo strumento che avrebbe scongiurato il destino di indietreggiamento al quale l'Africa sarebbe altrimenti stata condannata. Chissà quale cammino di civilizzazione immaginava il Comboni per l'Africa esplorata.
Sempre lui ricorda che è stata soprattutto la necessità di scoprire le sorgenti dei fiumi, del Nilo in particolare, a spingere molti esploratori nelle aree più interne del continente.
"La determinazione del bacino del Nilo, ed in peculiar modo la ricerca delle sue sorgenti, è stato sempre il termine dominante di tutte le intraprese. Queste presero due direzioni corrispondenti alle due braccia del Nilo, che confondono le loro acque presso il villaggio di Ondurman, vicino a Khartum capitale dei possedimenti egiziani nel Sudan […]; vale a dire, il braccio orientale, che è l'Astosabos degli antichi, o l'Abbay degli abissini, o il Bahar-el-Azrek degli arabi, cioè, il Fiume Azzurro; e il braccio occidentale, che è l'Astapus degli antichi, o il Bahar-el-Abiad degli arabi, cioè, il Fiume Bianco". E col Nilo Azzurro si arriva in Etiopia..
Molti sono i nomi degli esploratori citati dal Comboni, che dagli inizi dell'Ottocento hanno viaggiato attraverso l'Etiopia sia inoltrandosi dal Mar Rosso, nella terra degli Afar, sia penetrando nelle regioni interne alla ricerca delle sorgenti del Nilo Azzurro, o di quelle dell'Omo. Enrico Salt, Burckhardt, Combes, Tamisier, Krapf, Isemberg, Th. Lefevre, Petit, e Quartin-Dillon, Sapeto, i fratelli d'Abbadie, Munzinger sono soltanto alcuni degli esploratori che il Comboni cita a riguardo delle esplorazioni in Etiopia.
Qualche anno dopo, il religioso avrebbe dovuto aggiungere nella lunga lista dei nomi degli esploratori o di uomini alla ricerca della gloria personale, quello di Pietro Sacconi, di capitani al soldo della Corona, e ancora quello di Vittorio Bottego che pure viaggiò a più riprese in Etiopia. E' del 1896 la sua spedizione volta ad approfondire la conoscenza del corso del fiume Omo, letteralmente "il fiume", che raggiunse e il cui corso seguì fino al lago Turkana, ex lago Rodolfo. Bottego, per qualcuno un esploratore per altri un avventuriero, diviene indirettamente, il promotore di moderne spedizioni geografiche che grande importanza vengono a rivestire nella conoscenza della vita nella preistoria. Ecco a cosa ci riferiamo.
In occasione del centenario dell'esplorazione del Bottego nel sud dell'Etiopia, una spedizione che intende ripercorrere la strada da lui tracciata per raggiungere l'Omo, viene organizzata dalla società Ricerche Esplorazioni Geografiche di Scarlino, in provincia di Grosseto, in seguito coadiuvata dal professore Luca Bachechi del Dipartimento di Scienze dell'Antichità degli Studi di Firenze. Nel territorio tra il lago Abaya e il fiume Omo, nei pressi della cittadina di Soddu, sono stati rinvenuti diversi siti preistorici studiati a più riprese, anche con l'intervento della Società Naturalistica e Speleologica Maremmana, che ci hanno fatto capire quanto ancora poco si conosca di questo paese. E' lo stesso paletnologo Bachechi a sostenere che attualmente una stima del numero delle manifestazioni di arte rupestre in Etiopia è impossibile. A disposizione per chi volesse approfondire questo aspetto della storia dell'Etiopia ci sono libri dello stesso Luca Bachechi, oppure può consultare gli esiti di altre spedizioni effettuate da F. Anfray e R. Joussaume.
Dagli esploratori agli etnologi, il cui lavoro è reso difficile sia dal numero di popoli che abita queste regioni meridionali, e il cui numero non risulta sempre lo stesso nei diversi saggi di antropologia, prova della difficoltà di effettuare una completa mappatura, sia dal fatto che le fonti storiche sono di tradizione orale.
La grande regione che da Addis Abeba si stende fino ai confini col Kenya a sud e a quelli con Sudan a ovest si chiama Oromia e chiude con le sue propaggini la regione del Southern Nations, Nationalities and People's Region (SNNPR). L'una attraversata dalla valle del Rift l'altra solcata dall'Omo.
Il paesaggio è una continua sorpresa. Man mano che ci si avvicina al confine keniota il territorio verdeggiante dell'altopiano lascia il posto alla savana e ad aree sempre più aride che sfociano nel deserto delle genti Borana, il gruppo più importante degli Oromo.
Benché siano terre ricche di minerali preziosi, gli Oromo e le numerose etnie che vivono nel SNNPR -fonti governative ne citano 45- vivono in massima parte di agricoltura a cui si unisce la pesca, l'allevamento, la pastorizia transumante e la caccia. Il ritmo di vita oggi, come ieri, è regolato dal lavoro collettivo, dagli scambi commerciali, dai riti ancestrali e da un rapporto con la terra che le civiltà "progredite" hanno ormai per sempre perduto. Buoni raccolti e mandrie numerose legano il proprio destino, e quello della popolazione, alle sempre più frequenti variazioni climatiche. L'Etiopia è spesso citata per le gravi siccità che investono il proprio territorio o per improvvise e distruttive inondazioni. A fare i conti con il cambiamento climatico sono decine di popolazioni: i Dorze che vivono sulle pendici dei monti Guge, sul lago Abaya (ex Margherita), i Konso sulle colline che sovrastano il lago Chamo (ex Ruspoli), i Banna, gli Arboré, gli Hamer, i Mursi, i Karo, i Surma, oltre che gli stessi Oromo.
Agli effetti diretti di siccità e inondazioni si unisce l'equilibrio precario dell'economia di queste genti, che è un'economia di sussistenza. I cambiamenti climatico/ambientali alterano con estrema facilità l'equilibrio già precario e costringono le popolazioni a migrazioni forzate da una zona all'altra alla ricerca di pascoli e terreni da coltivare con l'inevitabile conseguenza di occupare terre storicamente appartenenti ad altre popolazioni. Si originano rivalità profonde che generano scontri sempre più cruenti, vere e proprie battaglie a colpi di kalashnikov.
Non si deve dimenticare che la convivenza di tutti questi popoli è derivata da un'azione di forza operata alla fine dell'Ottocento da Menelik che, con le sue conquiste, ha ridisegnato i confini dell'Etiopia.
Ma fino a che punto queste considerazioni possano interessare un viaggiatore non sappiamo.
Chi viaggia è attratto piuttosto dall'idea di vivere un'avventura in un ambiente selvaggio privo di strutture ricettive, nel quale convivono popoli dalle caratteristiche diverse, attratto dal peircing del corpo dei Mursi o dei Karo, dalle capanne dei Dorze o dai loro tessuti, i cui colori sgargianti e gli intrecci geometrici ricordano i mercati guatemaltechi, attratto dalle statue lignee, i waga, dei Konso, dai vestiti e dalla bellezza delle donne Hamer, dai gruppi di donne che si dirigono ai pozzi d'acqua o dalle genti Borana mentre scavano a mano pozzi profondi anche trenta metri, vitali per la sopravvivenza del villaggio e delle mandrie.
Una certa "attrazione turistica" rivestono anche i bambini Arboré, gli spaventapasseri viventi, che in piedi per ore su termitai difendono, con fruste e fionde, le coltivazioni di mais o di sorgo dagli uccelli.
E così se l'accesso all'acqua potabile è un diritto per chi vive nei paesi industrializzati, ma non per tutti gli altri e se la difesa dei diritti umani vale per qualcuno e per altri no, allora non ci resta che l'amara ironia per combattere le grandi contraddizioni.
E tanto per restare in tema di incoerenze vorrei ricordare che nel 1980 la valle dell'Omo viene dichiarata patrimonio dell'Umanità. Il perché questa regione sia stata inserita nella lista Unesco è indicato nel criterio di scelta "The discovery of many fossils there, especially Homo gracilis, has been of fundamental importance in the study of human evolution", la scoperta qui di molti fossili, specialmente di Homo gracilis, è stata di fondamentale importanza nello studio dell'evoluzione umana. Ma se "patrimonio dell'umanità" significa impegno di tutte le nazioni alla difesa e alla salvaguardia di culture e ambienti di rilevante interesse perché l'Unesco non ha preso, e continua a non farlo, in considerazione i popoli della valle dell'Omo, la loro cultura, le loro lingue, i riti ancestrali, gli aspetti spirituali, le danze, le feste ecc..?
E perché non l'acqua? Acqua come patrimonio dell'umanità e come diritto inalienabile.
Non è la preghiera della sera. Non preoccupatevi.
E' un'ultima riflessione: se ciascuno di noi sentisse il bisogno di partire e portasse dentro lo zaino alcuni quesiti irrisolti e poi si ponesse di fronte agli altri con grande umiltà, il viaggio avrebbe un senso alternativo alla frivolezza? (nella de angeli).



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1 *in realtà più di 7 volte l'Europa di oggi. Per rendersi conto dell'estensione della superficie dell'Africa basti pensare che essa può contenere l'Europa, l'India, la Cina, gli Stati Uniti e ancora resterebbero parti libere


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